Thursday, December 1, 2011

Silicon Valley

Una settimana di viaggio di studio per una quindicina di manager  nel tempio dell’innovazione.
Senza sosta sono stati gli incontri, tutti stimolanti e ricchi di contenuto, e molti gli spunti che portiamo a casa.
Anzitutto storie di vita: gli occhi di questi ragazzi italiani che ce l’hanno fatta: ingegneri trentenni che lavorano a Google , Apple o ancora che dopo una esperienza di startappari come dicono qui (idee brillanti che diventano start-up d’impresa con l’aiuto di venture capitalist), hanno fatto l’exit, ovvero hanno venduto e ora fanno i paperoni, continuando a lavorare nell’azienda o preparandosi  a divenire imprenditori seriali, generatori di galassie di  start-up che illuminano la vallata a mezz’ora da San Francisco della luce della gioventù, del coraggio del “provaci almeno”.
Così incontriamo Andrea  PHD del Politecnico di Torino che lavora in Google e che ci dice che lo svantaggio dell’Italia è la rigidità del mercato del lavoro, il non poter licenziare(!!), a Giovanni che per gioco appena ventenne ha mandato alcune sue applicazioni ad Apple per essere subito assunto e ora, dopo sette anni, decidere di  uscire (con una buona liquidazione di stock options) per provare anche lui a fare il grande salto. Quando chiediamo loro che cosa ne pensano delle università italiane che li hanno “sfornati” dimostrano un debito di riconoscenza ma mettono il dito sulla piaga principale: la mancanza di passione in primis nei docenti.
Qui fare l’imprenditore, avviare una start-up è un fattore culturale in un mondo dove il fallimento non è una sconfitta ma una “working esperience”, dove gli insoluti sono inferiori al 5%, dove tutti pagano con la carta di credito ma quando si tratta di finanziare la start-up ti arriva a casa l’assegno che ti cambia la vita.
Qui il discorso di Steve Jobs a Stantford diventa ridente realtà, come la sua tomba bianca, il nuovo tablets, il negozio del centro.
A finanziare i sogni dei geni tecnologici ci sono i venture capitalist. Anche tra loro troviamo il giovane Pietro che lavora per una società che gli ha affidato il compito di capire dalle prime dieci righe di un business plan – e ne arrivano a centinaia – se vale la pena approfondire. Ci spiegano che quello che vale è l‘idea ma non solo, anche e soprattutto il gruppo, le esperienze e, ovviamente, il prodotto e il suo potenziale  mercato.

Qui c’è tutto: soldi, cervelli (anche se gli ingegneri mancano anche qui) e i contatti giusti. E’ possibile chiedere un’opinione – e avere tempestiva risposta – ad un big del settore che con l’umiltà di un ventenne ti riceve anche il giorno dopo.

E’ un ecosistema da invidiare dove il big ben lo fa l’università, popolata da professori ex imprenditori o da venture capitalist o da ex imprenditori seriali, in un continuo scambio di ruoli che non ricorda alcun esempio italiano.

E infine il mega manager internazionale che dopo vent’anni di azienda si diverte come CEO di un start-up dall’idea molto promettente e che utilizza programmatori israeliani nel loro Paese, mentre Funambol ha lasciato in Piemonte i cervelli e qui tiene la finanza e il marketing.

Se in Italia tutto questo non si può fare ci consoliamo pensando che qui la comunità italiana si sta rafforzando per aiutare le imprese a sbarcare nella Silicon come piattaforma per il mercato Wordwild. Ed ecco le realtà di Mind the Bridge, M31 e BAIA pronte ad interpretare un nuovo patriottismo che non piange su cio’ che non si può fare ma che ha un solo motto: “THINK BIG!!!”


Paola Mainardi

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